Il mimetismo (seconda parte)
a cura di Maurizio Lodola
e M. Letizia Tani

Nel precedente numero abbiamo parlato del significato evolutivo del mimetismo come efficace strategia di sopravvivenza per le diverse specie animali, e di come questo fenomeno sia complesso, manifestandosi attraverso relazioni inter- ed intraspecifiche. Dopo aver illustrato alcuni dei numerosissimi esempi presenti nella classe dei Pesci, scopriamo adesso le capacità mimetiche di Anfibi e Rettili.

Gli Anfibi sono animali naturalmente vulnerabili, senza altre difese se non saltare o nuotare scomparendo via, oppure mimetizzarsi e passare inosservati: il notevole talento criptico di cui l’evoluzione li ha dotati consente loro di camuffarsi in sassi, muschio, foglie morte, canne di palude, porzioni di fiori, a seconda dell’ambiente che hanno colonizzato.

Le rane arboree sudamericane del genere Phrynohyas, per esempio, si aggrappano degli alberi dei quali riproducono perfettamente il disegno della corteccia, con le zampe così strettamente accollate al corpo da sembrare una porzione di ramo. Anche le raganelle del genere Hyla si presentano con livree di diverse tonalità di verde per nascondersi nell’ambiente arboricolo e palustre, aderendo alle foglie con le ventose a disco che hanno sulla punta delle dita. Sono diffuse un po’ dappertutto, anche in Europa con la specie Hyla arborea, una delle più facili ed interessanti da allevare in terrario e della quale esistono esemplari di una particolare colorazione azzurra. Gli individui così colorati non rappresentano infatti una variabilità cromatica abituale, ma sono una rarità dovuta alla mancanza di pigmentazione gialla. Questa anomalia, dovuta ad un carattere genetico recessivo, è per gli appassionati di questi Anfibi una particolarità molto bella a vedersi, ma in natura espone inevitabilmente i soggetti che la presentano agli occhi dei predatori, dai quali non riescono più a nascondersi. Pressoché invisibile, invece, è la piccola rana Megophrys nasuta, un Pelobatide che vive sul suolo delle foreste asiatiche confondendosi in mezzo alla lettiera di foglie delle quali imita non solo i colori, ma anche le nervature e le chiazze di fango e muffa grazie a caratteristiche sporgenze della pelle, sviluppate soprattutto sopra gli occhi.

Se la maggior parte degli Anfibi sfrutta le proprie capacità mimetiche a scopo difensivo, per nascondersi dai nemici, alcuni fanno il contrario, servendosi del mimetismo a scopo aggressivo. E’ il caso dei corpulenti rospi del genere Ceratophrys che, in alcune specie come C. ornata o C. cornuta, possono raggiungere anche i 20 cm di lunghezza e poco meno in larghezza, dimensioni che li annoverano fra gli Anuri più grossi; il loro aspetto goffo e buffo è accresciuto dalla presenza di escrescenze sovraorbitali che sembrano vere corna. In realtà esse servono a questi animali per osservare rimanendo nascosti nell’erba, dalla quale lasciano sporgere solo gli occhi, mimetizzati con una livrea nei diversi toni del verde e marrone: all’avvicinarsi di una preda – costituita anche da piccoli rettili, roditori ed uccelli - spiccano un balzo afferrandola con l’enorme bocca dotata di una robusta dentatura. L’aggressività di queste specie di Anfibi può rivolgersi anche contro l’uomo, che tenta di mordere se penetra accidentalmente all’interno del loro territorio; anche in terrario questi animali battaglieri si avventano saltando e mordendo qualsiasi oggetto venga posto nel loro territorio di caccia.

Oltre al mimetismo criptico, fra le varie suddivisioni coniate dagli etologi per distinguere le diverse modalità con le quali si manifesta il fenomeno mimetico, quello batesiano (dal naturalista inglese H. W. Bates che lo descrisse per primo) è poco conosciuto ed è piuttosto raro fra i vertebrati, rappresentato soprattutto fra gli insetti e in alcune specie di Anfibi. Si è già detto di come questi si difendano per lo più passivamente, tentando di nascondersi, ma fra essi alcune specie si difendono in maniera più attiva, usando sostanze tossiche come deterrente verso i predatori.

Nelle foreste pluviali dell’America centrale e meridionale una ventina di generi di Anuri hanno ulteriormente perfezionato questa strategia difensiva. Le rane del genere Dendrobates sono così velenose da poter paralizzare un uccello, un rettile o anche una scimmia: le loro ghiandole cutanee producono infatti un secreto contenente crinotossina, usato dagli indios per avvelenare la punta delle frecce, la cui funzione naturale non è di essere letale - perché per le rane non è di alcuna utilità se il predatore muore subito dopo averle ingerite - ma sufficientemente disgustoso ed urticante da indurre qualunque animale che le ingoi a sputarle immediatamente. La particolarità di queste rane sta nell’aver associato al veleno degli sgargianti colori che le rendono immediatamente visibili anche nella folta vegetazione tropicale, nella quale si muovono in pieno giorno - a differenza della maggior parte delle altre specie - incuranti di eventuali attacchi da parte dei predatori, dai quali si proteggono unicamente esibendo la loro brillante livrea.

Le specie repellenti hanno sviluppato la capacità di rendere evidente tale loro prerogativa, diventando immediatamente riconoscibili agli occhi dei predatori attraverso vistose colorazioni di avvertimento, che vengono dette in gergo etologico "colori aposematici": soprattutto i colori giallo, rosso, azzurro, su fondo nero o bianco, oppure abbinati tra loro con contrasti violenti, hanno la funzione di veri e propri campanelli d’allarme per i predatori, avvertendoli che la specie individuata come possibile pasto è sgradevole e inappetibile, se non addirittura pericolosa. Gli animali che, incautamente, abbiano effettuato una volta l’esperienza negativa di prendere in bocca queste prede difficilmente in seguito ricadranno nell’errore, intimoriti alla vista di quei colori che - come essi hanno appreso a proprie spese - sono sinonimo di guai. La selezione naturale infatti ha favorito in numerose specie l’evoluzione delle colorazioni aposematiche, tipiche di animali sgradevoli o pericolosi, allo scopo di scoraggiare a priori i tentativi di aggressione da parte dei predatori, i quali, dopo un primo episodio negativo, assoceranno quel particolare "modello" al trauma subìto, evitando in seguito di ricadere in errore.

Nel caso del mimetismo batesiano si assiste allo sfruttamento da parte di una specie appetibile e inerme dell’apprendimento indotto sui propri nemici da un’altra specie dal sapore disgustoso e/o provvista di armi di difesa: questa teoria si basa sul fatto che il predatore impara a stare alla larga dai modelli riconosciuti come nocivi, evitando così anche la specie innocua (mimo) che, con questo intento, copia quella pericolosa (modello). Basandosi sul meccanismo di condizionamento che scatta nei predatori alla vista dei colori aposematici, alcune specie non velenose di Anfibi ingannano i loro nemici adottando una livrea di avvertimento molto simile a quella delle specie munite di difese naturali, allo stesso modo con cui certi insetti non muniti di pungiglione hanno assunto la stessa colorazione a righe gialle e nere delle vespe. Ciò si realizza solo quando gli animali-modello sono più abbondanti dei loro mimi negli habitat comuni, di modo che le esperienze negative dei predatori vengono rinforzate nel tempo.

Anche alcune specie nostrane di Anfibi hanno evoluto colori aposematici di avvertimento: per esempio i rospi ululoni, Anuri del genere Bombina, e la salamandrina dagli occhiali, Urodelo del genere Salamandrina, hanno il dorso scuro ed il ventre di un vivace color rosso-arancio che diventa visibile quando, disturbati o minacciati, incurvano il tronco in un caratteristico riflesso, detto Unkenreflex (termine tedesco traducibile approssimativamente in "riflesso ululone"), descritto per la prima volta dall’etologo Konrad Lorenz. Tale particolare atteggiamento ha probabilmente un significato difensivo, di ammonizione ai potenziali predatori attraverso l’esibizione dei vivaci colori ventrali, dato che queste specie, come tutti gli Anfibi, secernono un secreto viscoso ed irritante.

Quando l’arte del camuffamento fallisce, il ricorso alle armi chimiche in animali non dotati di altri deterrenti è inevitabile: il comune rospo europeo (Bufo bufo), per esempio, se attaccato si gonfia a palla e la sua epidermide verrucosa libera sostanze fortemente urticanti se vengono a contatto con le mucose; prendendolo in mano non succede niente perché il secreto non danneggia la nostra pelle, mentre è invece irritante se poi ci strofiniamo gli occhi senza esserci lavati bene le mani. Esperienza che posso confermare - ovviamente non perché abbia ingoiato un rospo – ma perché ero presente quando in campagna la mia gatta ha cercato di catturare un giovane rospetto ed immediatamente dopo averlo preso in bocca l’ha sputato disgustata, sbavando e lacrimando copiosamente per un po’ di tempo.

La strategia difensiva adottata dai Rettili sta nell’aver sviluppato una cute squamosa e coriacea, spesso armata di spine e protezioni ossee che nelle tartarughe si è ulteriormente rafforzata a formare il carapace, una robusta ed inespugnabile corazza di piastre cornee. Come nei Pesci e negli Anfibi, anche in numerose specie di Rettili sotto le squame l’epidermide contiene cellule pigmentate capaci di un’ampia variabilità cromatica. L’esempio più classico – entrato a far parte dei luoghi comuni come simbolo di mutevolezza – è il camaleonte. Questo Rettile Squamato si è altamente specializzato nel condurre una vita arboricola, per la quale ha sviluppato singolari adattamenti, di cui la più nota è la straordinaria capacità mimetica: è infatti in grado di uniformarsi all’ambiente mutando rapidamente i propri colori nelle più diverse tonalità di verde della vegetazione che lo circonda. Tali cambiamenti cromatici sono regolati non solo da fattori esterni – quali la luminosità, la temperatura ed altri fattori fisici – ma anche da fattori intrinseci all’animale, come lo psichismo o il particolare momento del suo ciclo ontogenetico. Come è possibile osservare anche in terrario, questo simpatico animale sfoggia i suoi colori più brillanti se esposto ad una luce intensa e ad elevata temperatura, mentre al buio o a temperature più basse di quelle che gli sono congeniali la sua livrea assumerà una colorazione piuttosto sbiadita ed uniforme. Anche lo stato emotivo è determinante per la colorazione: durante il periodo riproduttivo, per esempio, i maschi presentano colori accesi che segnalano ai loro conspecifici di tenersi alla larga dal proprio territorio e, in caso di combattimento, il maschio sconfitto abbandona il campo con una livrea di un dimesso color grigio chiaro. Le eccezionali doti mimetiche insieme all’assoluta immobilità di cui è capace, rimanendo a lungo sospeso sui rami in attesa di una preda, fanno del camaleonte un maestro assoluto dell’arte della simulazione, soprattutto all’interno del suo abituale habitat arboreo.

A terra invece molti altri Sauri gli contendono il primato della mimetizzazione: quasi tutti i Lacertiliani hanno adottato livree che ben si confondono sul terreno, dalle spettrali trasparenze dei geki alle vivaci punteggiature delle comuni lucertole, fino ai camuffamenti più sofisticati, che riproducono non solo i colori ma anche determinate forme dell’ambiente. La lucertola cornuta, Phrynosoma coronatum, mescola i suoi colori con quelli delle pietre e della sabbia del deserto messicano, aumentandone l’effetto visivo con numerose appendici cutanee spinose che riprendono la forma della rada vegetazione secca e irsuta di quelle zone. Se scoperta, ed il suo aspetto terrifico non basta a scoraggiare un predatore come il coyote, ricorre ad un mezzo estremo di difesa: tramite la rottura di un vaso capillare dell’occhio riesce a spruzzare sangue contro il nemico che, disorientato, le lascia una via di fuga.

Anche chi fra i Rettili non possiede la capacità di mimetizzarsi variando l’intensità della propria pigmentazione, come i coccodrilli o le tartarughe, è comunque riuscito in altri modi a celarsi alla vista di eventuali predatori o prede. I grandi rettili come i Loricati (coccodrilli, caimani, alligatori) hanno assunto un’uniforme colorazione brunastra che ben si adatta alle acque fangose e stagnanti nelle quali vivono nascosti, nonostante le loro dimensioni, anche grazie alle loro abitudini subacquee che li rendono invisibili fino a che non sferrano i loro micidiali attacchi. I giovani invece presentano una livrea a vistose strisce gialle che però li aiuta a nascondersi nella fitta vegetazione ripariale dove essi si rifugiano durante il loro periodo di accrescimento: identica soluzione che si è visto essere adottata anche dai giovani Ciclidi dei laghi africani, a conferma di come la stessa pressione ambientale determini scelte uguali in animali filogeneticamente diversi.

Nei Cheloni, le tartarughe, il mimetismo svolge una funzione generalmente protettiva, data l’indole lenta e pacifica di questi animali, fra i quali esistono però almeno due vistose eccezioni: la mata-mata e la tartaruga alligatore. La prima (Chelus fimbriatus) vive nelle acque del bacino amazzonico, dove tende agguati a piccoli pesci che inganna camuffata in mezzo alle foglie morte del fondo: l’orlo del carapace sfrangiato, dai colori simili alle foglie decomposte, la testa appuntita e le zampe provviste di lembi di pelle fluttuanti nell’acqua, fanno di questa testuggine un invisibile predatore, capace di percepire anche in acque torbide i movimenti dei pesci che le passano attorno, grazie a particolari recettori del tatto situati intorno alla bocca. L’altra cacciatrice, la tartaruga alligatrice del Nord-America (Macroclemys temmincki) è un animale che può raggiungere dimensioni notevoli (anche 200 kg per 1,50 m di lunghezza), adattata alla vita sul fondo dei corsi d’acqua dolce dove caccia all’agguato mimetizzata dalle alghe che le ricoprono il carapace. Specie pesante e sedentaria, ha sviluppato una singolare tecnica di pesca che le permette di procurarsi il cibo senza spostarsi: la sua lingua è infatti fornita di un’appendice carnosa, rossa e mobile, che la tartaruga agita come un’esca davanti ai pesci, i quali, per afferrarla, finiscono dritti fra le sue fauci spalancate.

Sicuramente gli esempi più temibili di mimetismo aggressivo si trovano fra gli Ofidi, i serpenti, diffusi un po’ ovunque con una grande variabilità di forme e di strategie per la sopravvivenza, che devono parte del loro successo alla capacità di mimetizzazione. Nascosti infatti fra la vegetazione, sotto la sabbia, fra i sassi, nell’acqua, i serpenti cacciano le ignare prede attendendole immobili ed invisibili nei loro molteplici travestimenti. Così anche animali di dimensioni ragguardevoli, come il boa smeraldino (Corallus caninus) o il pitone verde (Chondrophyton viridis), passano inosservati stando attorcigliati sui rami con le loro avvolgenti spire verdi, che lasciano talvolta penzolare come innocue liane, ma sempre pronti a scattare e stritolare nel loro terribile abbraccio anche prede molto più grosse di loro. Del resto anche il serpente più grande e lungo del mondo, la gigantesca anaconda (Eunectes murinus), che può superare i 10 m di lunghezza ed arrivare a pesare mezza tonnellata, caccia le sue prede nascosta negli acquitrini del Sud America riuscendo perfino ad ingannare altri astuti e grandi predatori come i caimani, i quali diventano prede a loro volta.

Considerata l’abilità mimetica che hanno tutti i serpenti, il timore di rimanere vittime del loro morso velenoso è spesso motivo di preoccupazione anche per l’uomo: numerosi escursionisti, villeggianti, persone che lavorano all’aria aperta, bambini che giocano e incauti frequentatori delle zone soleggiate che i serpenti preferiscono o che hanno stabilito come loro territorio, muoiono ogni anno morsicati da questi animali che non hanno purtroppo avvistato in tempo, calpestandoli o disturbandoli inavvertitamente. Il timore atavico legato ai serpenti è del resto diffuso in tutto il mondo animale e addirittura alcune specie, come le scimmie, si trasmettono geneticamente la reazione di allarme di fronte al segnale di pericolo rappresentato dalle forme allungate e striscianti che evitano fin da cuccioli.

La diffusa fobia ancestrale che si evoluta nei confronti dei serpenti è stata però da alcuni sfruttata per il proprio vantaggio, come avviene per l’inganno inscenato da certi innocui Ofidi che imitano appunto specie particolarmente velenose: è il caso dei colubridi non velenosi detti "falsi corallo" per la livrea identica a quella dei letali serpenti corallo. Questo fenomeno di imitazione, definito mimetismo mertesiano dal nome dell’erpetologo R. Mertens che per primo condusse ricerche sui serpenti corallo e sui loro mimi, è un caso particolare di mimetismo batesiano che è stato solo di recente spiegato nei suoi vari aspetti dall’etologo W. Wickler. I serpenti corallo appartengono alla famiglia degli Elàpidi con circa 70 specie terricole che vivono nelle zone tropicali e subtropicali del Nuovo Mondo, dagli Stati Uniti all’Argentina; devono il loro nome alla brillante livrea aposematica dai colori rossi, gialli, neri che si susseguono in una serie di anelli diversa nelle differenti specie. I rappresentanti più tipici sono del genere Micrurus che comprende specie altamente velenose: anche una piccola quantità del loro secreto neurotossico è sufficiente a causare arresto cardiaco e paralisi polmonare. Oltre a questi, esistono anche altri serpenti corallo dagli identici colori rappresentati da un piccolo gruppo di Elàpidi velenosi ma non letali e da certi Colubridi del tutto innocui con una livrea quasi uguale a quella dei mortali Micrurus. Talvolta la distinzione fra i falsi coralli e quelli veri può essere fatta semplicemente osservando il colore della testa che nel colubride Lampropeltis elapsoides è di un colore rosso vivo, mentre negli Elàpidi è sempre nera anteriormente; invece fra il velenosissimo serpente corallo Micrurus frontalis e l’innocuo colubro Simophis rhinostoma di diverso c’è solo la differente lunghezza degli anelli ed una diversa disposizione dei colori, ma le due specie sono talmente simili da poter essere identificate e distinte solo comparandole da vicino.

In questo complesso caso di mimetismo i modelli da imitare non sono, come si potrebbe pensare, quelle specie di serpenti corallo mortalmente velenose, bensì le specie intermedie moderatamente velenose: queste infatti vengono imitate sia da Ofidi del tutto innocui come i falsi corallo (semplici mimi batesiani), sia dai veri serpenti corallo dal veleno micidiale (mimi mertesiani). Nel caso degli innocui colubridi, essi si avvantaggiano dell’imitazione delle forme velenose secondo il meccanismo già spiegato del mimetismo batesiano, venendo evitati insieme alle specie pericolose; nel caso invece dei serpenti corallo dal veleno mortale il vantaggio sta nel non dover sprecare il loro veleno su animali che non costituiscono prede. Infatti un predatore non potrebbe trarre insegnamento dallo spiacevole incontro con uno di essi, dal momento che il loro morso fatale non gli consentirebbe di imparare la lezione per il futuro e l’esperienza fatta rimarrebbe fine a sé stessa.

Secondo la teoria mertesiana i predatori morsi da una delle specie a media pericolosità - che sono anche più numerose delle altre nell’ambiente – riescono a riprendersi ed in seguito ad associare l’esperienza negativa alla livrea corallo che agisce da deterrente. Grazie quindi al morso spiacevole ma non mortale delle specie di Elàpidi moderatamente velenose, gli altri serpenti corallo otterranno un duplice vantaggio: gli imitatori batesiani, cioè i falsi coralli innocui, non verranno attaccati dai predatori che hanno già subìto il trauma del morso, e i mimi mertesiani, ovvero i serpenti corallo velenosi mortali, non dovranno difendersi inutilmente, risparmiando così veleno ed energie.

Terminiamo a questo punto il viaggio all’interno del microcosmo degli organismi mimetici che, a qualsiasi classe o specie appartengano, dimostrano di essere capaci delle più sofisticate forme di illusione, le quali, seppure ci disorientano visivamente, ci permettono di comprendere meglio la complessa storia evolutiva degli animali ed il grande mosaico della storia naturale. Impariamo quindi a conoscere e a decifrare questi mondi simulati, profondamente diversi da quello in cui noi viviamo, dove la menzogna non è mai fine a se stessa ma fa parte del grande ciclo della vita.

BOX: LA TANATOSI

Dal greco thanatos = morte, è un singolare adattamento protettivo assunto da numerose specie animali che in caso di estremo pericolo fingono di essere morti. Tale comportamento è caratterizzato dall’immediata ed assoluta immobilità, dovuta ad un’intensa e prolungata contrazione muscolare mediata dal sistema nervoso centrale, che permette al soggetto di assumere una postura del tutto simile ad un animale morto. Questa catalessi rappresenta un fenomeno istintivo di autoconservazione a cui ricorrono sia gli invertebrati (soprattutto ragni e insetti) che i vertebrati (Pesci, Anfibi, Rettili, Uccelli e Mammiferi) quando l’aggressore ha precluso loro ogni possibilità di fuga, sfruttando il fatto che di solito i predatori non attaccano prede già morte perché le loro carni potrebbero essere inappetibili o tossiche per il processo di decomposizione. Il predatore di fronte ad una preda morta, che non si muove, allenta la sua concentrazione alla caccia, così che - approfittando della sua distrazione - il finto cadavere può rapidamente "resuscitare" e sfuggire sopravvivendo all’attacco. Non sempre però il trucco funziona: infatti se è vero che i predatori più specializzati preferiscono cibarsi di prede vive e che, comunque, esse non vengono quasi mai consumate dopo il decesso, altri cacciatori si accontentano, in mancanza di meglio, anche di carogne.

Fra i Pesci un caso senz’altro conosciuto agli acquariofili è quello dei pesci-neon e pesci cardinali, entrambi appartenenti alla famiglia dei Caracidi, i quali si fingono morti non appena pescati, galleggiando inerti nel retino o nel sacchetto dove li abbiamo momentaneamente posti, salvo poi schizzare via una volta rimessi nell'acquario. Anche gli Anfibi ricorrono a questo trucco, come il rospo comune, che se attaccato tenta di gonfiarsi il più possibile per impedire al predatore di ingoiarlo, liberando contemporaneamente un secreto lattiginoso ed urticante che dovrebbe dissuadere il suo persecutore, ed infine, falliti questi tentativi, si distende pancia all’aria apparentemente senza vita. Nei Rettili la tanatosi è piuttosto comune: il camaleonte orecchiuto africano (Chamaleo dilepis), se sorpreso inerme allo scoperto, espande repentinamente tutti i melanofori che regolano la sua normale pigmentazione verde, fingendosi morto agli occhi dei predatori con questo accorgimento cromatico. Sempre fra i Rettili, diversi serpenti sfruttano l’espediente della finta morte come fanno la biscia dal collare (Natrix natrix) o il muso di porcello (Heterodon nasicus): quest’ultimo quando viene molestato si rovescia immobile sul dorso mostrando il ventre pallido, con la bocca spalancata e l’apertura cloacale estroflessa dal colore della carne putrida; contemporaneamente emette anche uno sgradevole odore marcescente, che contribuisce a rafforzare il suo aspetto cadaverico. Se il predatore non si arrende e lo raddrizza, ritenta comunque la sua pantomima cercando di riprendere la posizione da morto.

La simulazione di morte si può quindi considerare come una sorte di mimetismo in extremis, che interviene quando le altre armi o difese naturali non sono servite e bisogna inscenare un espediente finale e drammatico, ma che il più delle volte riesce a salvare la vita.

 

BIBLIOGRAFIA

AA. VV., 1992, "Dizionario di etologia", Einaudi editore, Torino.

Ward, P. 1979, "Il mimetismo animale", De Agostini, Novara.

Wickler, W. 1968, "Mimetismo animale e vegetale", Il Saggiatore, Milano.